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Il TESORO del MUSEO del SANTUARIO di SAN VITO LO CAPO:
LE OPERE.


LE OPERE
L’evoluzione nel gusto dell’arredo, nelle preziose stoffe e nelle sacre suppellettili del Santuario.

Testo tratto da:
- "Il Tesoro del Santuario di San Vito Lo Capo" a cura di Annamaria Precopi Lombardo, Pietro Messana e Silvia Scarpulla - Edizioni MEETING POINT
- "SAN VITO Indagine su un martire di Cristo dei primi secoli" di Pietro Messana - Edizioni MEETING POINT

Secolo XVI: prima metà (1500-1549).
Una preziosa scultura lignea raffigurante l’Immacolata inaugura il percorso espositivo del Santuario. Un anonimo intagliatore ericino propone la fanciulla rivestita di sole, di grazia divina, fin dall’inizio della sua esistenza terrena significato dalla luna posta sotto i suoi piedi.
Seguono preziosi parati in Damasco di seta, di colore rosso, il colore liturgico della festa di San Vito. Questi tessuti vanno dall’inizio del secolo (piviale e dalmatica), fino alla prima metà (pianeta). Tipica di questo periodo è la lavorazione del tessuto a grande rapporto con motivi decorativi a scacchiera. Il damasco di seta era considerato molto prezioso per il pregiatissimo materiale come anche per il suo lungo e difficile processo di lavorazione. La Chiesa lo impegnava per i paramenti liturgici; i nobili confezionamento con questo tipo di tessuto i loro abiti di gala e nei loro palazzi lo impegnavano per l’arredamento.

Secolo XVI: seconda metà (1550-1599).
Si attribuisce a Ruggero II (secolo XII) l’introduzione della produzione serica in Italia. A questo periodo risalgono gli opifici del Regno di Sicilia di Palermo, Messina, Reggio e Catanzaro.
Nel Cinquecento, con il Rinascimento, la produzione della seta in Italia eccelse per qualità e creatività e numerose città traevano una delle fonti più cospicue di ricchezza dalla produzione serica.
Tuttavia i parati policromi a motivi geometrici non sono di produzione italiana, ma riconducibili alla produzione spagnola introdotta nel Regno di Sicilia durante il governo di Filippo II (1556-1598). Il tessuto in broccato di seta è molto ricercato. Realizzato su telai predisposti a tal fine, presenta complessi disegni colorati ottenuti grazie a trame discontinue.
In questo periodo Giacomo Gagini scolpisce la statua in marmo di San Vito (1587) da collocare sull’architrave del portale d’ingresso al Santuario.
La croce ed il raffinato calice di produzione palermitana chiudono il Cinquecento.

Secolo XVII: prima metà (1600-1649).
Il cappellone della chiesa viene decorato a stucco da Orazio Ferraro che realizza un ricco apparato decorativo barocco (1624) che ha il suo fulcro nella Triade Divina al centro della composizione: in alto troneggia un maestoso Padre Eterno che invia lo Spirito Santo, simboleggiato dalla colomba, verso gli uomini in mezzo ai quali si incarna, cioè si fa uomo, il Verbo divino, Gesù che, Re dei martiri, rappresentato perciò nel momento della sua flagellazione. Ai lati di Cristo stanno, a destra, l’Addolorata, regina dei martiri, e San Modesto; a sinistra San Vito e Santa Crescenza. Nel 1647 si colloca lo stemma della Città (allora chiamata Monte San Giuliano sulla facciata della chiesa, nel cortile interno del Santuario fortezza per sottolineare il diritto del patronato del Comune. Le vicende della costruzione dell’edificio sono descritte dal Cordici, storico ericino, nel suo libro “Istoria della Chiesa di San Vito Lo Capo ...”.
Le stole rosse in taffetas liseré broccato e in taffetas lanciato, un velo di damasco e calice d’argento che reca il punzone degli argentieri trapanesi DUI (Dreapanum Urbs Invictissima) inaugurano il secolo XVII.
Tra i paramenti liturgici di questo periodo emerge la casubula verde. Le sue vicende sono descritte dalla stessa donatrice nel Libro dei miracoli di San Vito, registro nel quale i pellegrini annotavano le grazie ricevute. Si tratta della moglie del Protonotaro, Terza autorità del Regno, che fa confezionare il parato con la stoffa di un suo prezioso vestito in velluto di seta. Tra le stoffe in seta di particolare pregio figurava il velluto, proprio perché per la sua realizzazione occorreva un ingente quantitativo di seta, pari a cinque volte quello di un tessuto semplice. Il parato esposto è in velluto tagliato che ha la sua caratteristica di presentare un pelo spesso e raso.
Il Crocifisso in legno intagliato, opera di ignoto scultore locale, attinge al repertorio già divulgato di frà Umile da Petralia. Anche la seconda pianeta verde è in tessuto di seta, il taffetas lanciato liserè, manufatto della seconda metà del secolo XVII. Le stole di pertinenza della pianeta, a motivo di un più facile logoramento, presentano un tessuto del secolo successivo.

Secolo XVII: seconda metà (1650-1699).
Il dotto arciprete Vito Carvini riporta, nella sua opera del 1687 “Breve relazione del famoso tempio di San Vito al capo Egitarso”, la vita del Santuario in quegli anni.
I parati di questo periodo sono particolarmente preziosi.
Il piviale azzurro in taffetas laminato è arricchito da una grande balza in merletto a fusilli lavorato con fili d’oro e d’argento.
Il disegno modulare a girali propone elementi vegetali e zoomorfi.
Il parato rosa, tessuto di seta con ricami in oro e argento filati, veniva usato in occasione del solenne pellegrinaggio annuale al Santuario che muoveva dalla città di Erice la quarta domenica di Quaresima.
L’apparato decorativo, a schema libero, presenta rameggiati con cornacchie (simbolo dell’abbondanza dei favori divini) e cani (simbolo della fedeltà e attributo iconografico di San Vito).
Uno dei principali motivi di pellegrinaggio al Santuario era, infatti, la richiesta al Santo di essere liberati dallo “scanto”.
La pisside d’argento, opera di argentieri trapanesi, si rese necessaria per la conservazione del SS. Sacramento nella chiesa, come ordinato dal vescovo Cicala nel 1667.

Secolo XVIII: primo quarto (1700-1724).
Il secolo XVIII si inaugura con l’attestazione di un nobile devoto milanese, Giuliano Berzio, che nel 1708 offre al Santuario l’ostensorio, raffinata opera di argenteria palermitana. Sempre alla sua committenza si ascrive il cancello in rame lavorato a sbalzo che chiudeva la nicchia del simulacro del Santo, opera datata 1716.
Né manca la testimonianza di altri devoti: Leonardo Zichichi nel 1717 dona al Santo la stauroteca, opera di argentieri trapanesi.
Questo primo quarto di secolo vide inoltre, nell’ambito delle arti decorative, la realizzazione del pavimento della chiesa con maioliche dipinte a volute e fiorami giallo-verdi, opera di ceramisti trapanesi; la corona d’argento del Santo e il reliquario ancora opera di argentieri trapanesi e la pianeta bianca ricamata in seta policroma e oro, realizzata dalle monache del Monastero del SS. Salvatore di Erice.
Tutte queste opere presentano gli stessi moduli decorativi barocchi con decorazioni filiformi a girali che hanno esito in fioroni a corolla e coronati da tulipani.
La pisside portaolio, quella portaviatico e la teca eucaristica sono opere di argentieri trapanesi. Le ultime due escono dalla celebre bottega dei Lotta.
Anche la pala del Martirio dei Santi, olio su tela del 1713, attribuibile all’ambito di Giuseppe Felice, si colloca in questo primo quarto di secolo.

Secolo XVIII: secondo quarto (1725-1749).
Seguendo il mutamento del gusto che dalla Francia si diffonde in tutta Europa, si abbandona la ridondanza decorativa e il ricco cromatismo barocco per dar luogo ad una decorazione più elegante, raffinata e luminosa, che non ha altro fine che il diletto.
Il reliquario d’argento del 1747 testimonia questo mutamento del gusto così come la pianeta bianca ricamata con fili d’oro, i cui moduli decorativi sono ripresi anche nel pavimento di ceramica della chiesa del Monastero di Santa Teresa di Erice.
Il calice, raffinato e leggero, e il secchiello confermano che la sontuosità barocca è stata abbandonata a favore della leggera raffinatezza del gusto del periodo.

Secolo XVIII: terzo quarto (1750-1774).
Questa seconda metà del secolo conferma la sempre crescente devozione a San Vito. È del 1753 una corposa biografia del Santo opera del vicario generale della Diocesi di Mazara dal titolo “Vita del glorioso...”.
In questo periodo, i contatti con l’Estremo Oriente si intensificano e si diffonde il gusto dei riferimenti Chinoise. Il parato rosso per la messa solenne di San Vito (piviale, pianeta, dalmatica e tunicella), di probabile produzione francese, rappresenta nello stesso tempo il gusto imperante e le nuove tecniche che ne permettono una produzione semi industriale.
L’arciprete di Erice, Nicolò Badalucco, rettore del Santuario, protagonista del suo ritrovamento artistico, commissiona lo stesso parato per la Regia Matrice Ericina.
Il calice d’argento, opera del 1774 di argentieri palermitani, presenta le caratteristiche del gusto rocaille pienamente maturo che cerca altri esiti.

Secolo XVIII: ultimo quarto (1775-1800).
Il gusto di questo periodo, dopo la riscoperta di Pompei, è ormai proiettato verso i riferimenti dell’antichità classica, soprattutto di epoca repubblicana. Si prediligono tessuti monocromi o con ricami in filo d’oro con motivi che attingono al repertorio greco-romano.
La pianeta e il piviale sono di tonalità carta di zucchero, antico colore che si usava per le festività liturgiche mariane e che in numerose culture occidentali si usa per la nascita di un figlio maschio.
Anche il calice, liscio, con il collo a faretra, il turibolo con disegni architettonici e la navetta con piede a faretra scanalata e foglie di acanto nella chiglia sono coerenti con il gusto imperante alla fine del Settecento.
Quadro Sacra Famiglia.

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